Il mare turchese delle isole greche
Leuca, 6 luglio
Ho lo sguardo fisso sull’oblò sopra la mia faccia nella cabina di prua, dove da quasi tre ore sto cercando inutilmente di addormentarmi mentre fuori, sul lungomare di Leuca, la musica assordante e la voce amplificata di uno stupido dj mi sta lacerando i timpani e massacrando i nervi. Volevamo fare l’ennesima traversata notturna per raggiungere Othonoi, ma non avendo riposato molto in questi giorni avevamo cambiato idea, pianificando di partire all’alba, sfruttando così qualche ora notturna di sonno per ricaricare le energie. Piano completamente saltato, perché alle 2,30 di notte, ormai esausto e dopo aver sviluppato un sentimento di odio per tutte le discoteche del pianeta, ho acceso il motore, salpato l’ancora e messo la prua verso est, verso la Grecia.
Lella viene a darmi una mano, ma preferisco che dorma qualche ora, così da potermi poi sostituire quando immancabilmente crollerò con l’arrivo del giorno.
C’è ancora un po’ vento da nord nel Canale di Otranto, e un residuo di onda che non supera mai il mezzo metro. Spengo quasi subito il motore e con le vele bene aperte navighiamo a più di 6 nodi.
Othonì è la più grande delle isole Diapontine, un gruppetto di quattro isole e nord ovest di Corfù. Non ci siamo mai fermati in nessuna di queste, eppure ci siamo sempre passati davanti in tutti i nostri viaggi da Ravenna alla Grecia. Quest’anno vogliamo sostare almeno nelle due più grandi, a partire proprio da Othonoi.
La baia di Ammos vista da lontano non sembra nemmeno una baia, quanto piuttosto una lunga e alta parete rocciosa che precipita a picco su un mare azzurro che più azzurro non si può. Avvicinandosi si vedono meglio i due piccoli promontori che disegnano la classica forma a mezzaluna delle baie, ma il mare è così profondo che ti fa dubitare che in questo posto si possa calare davvero l’àncora. Settanta metri, poi cinquanta, poi quaranta, la parete è sempre più vicina e ci sono ancora trenta metri di fondale, poi venti, sono ancora tanti, troppi, poi 15 metri e infine 12. Non possiamo avvicinarci di più, si rischia di “finire a scogli”. Il fondo è di sabbia, ottimo tenitore delle ancore, e infatti facciamo presa al primo colpo, posizionandoci fra un grosso yacht e una barca a vela grande più o meno come la nostra, ma decisamente più nuova. È abbastanza difficile trovare barche più vecchie di Eleftheria, difficile ma non impossibile, visto che le barche non sono come le automobili, e una barca di vent’anni fa è ancora una barca giovane, e una di quaranta può ancora navigare e dir la sua senza grandi problemi.
Le nuotate in quest’acqua trasparente sono un toccasana per il corpo e per lo spirito. Le pareti quasi verticali e i boschi lungo le sue creste danno l’illusione di star nuotando dentro un lago alpino. La base della scogliera è ricca di spaccature e grotticelle, l’ideale per fare un po’ di snorkeling, anche se i pesci purtroppo scarseggiano, sia in quantità che in dimensioni: pochi saraghi, qualche occhiata, delle salpe minuscole e poco più. Mare deserto, trasparente ma deserto. Tutto il Mediterraneo è sempre più un mare vuoto di vita, classificato di recente come il secondo bacino al mondo per “insostenibilità della pesca” (non so quale sia il primo) e nonostante ciò continua a essere super sfruttato da una pesca che produce ogni anno 230mila tonnellate di pesce pescato e scartato per essere poi rigettato in mare! Colpa in gran parte della pesca a strascico, che come sappiamo non fa nessuna selezione di specie e distrugge anche gli habitat dei fondali marini. Ma in generale è tutta la pesca che fa fatica ad essere regolamentata per diventare meno impattante possibile sull’ambiente.
Domenica 7 luglio, Erikoussa
Questa isola è molto più bassa sul mare, appena 130 metri, e la mancanza di rilievi ne riduce sicuramente la bellezza. Una grande baia sul suo lato sud permette a molte barche come la nostra di ormeggiare serenamente su un fondo sabbioso profondo appena cinque o sei metri. Nel giro di qualche ora si contano più di venticinque barche e sono sicuro che prima di sera saranno molte di più. Il porticciolo di Erikoussa è poco adatto alle barche da diporto, solo una piccola banchina a “elle” che sembra animarsi solo quando arriva il traghetto da Corfù, una volta al giorno. Al di là della spiaggia si intravedono delle case, un vecchio mulino e una stradina che conduce verso l’interno. Mi dà l’idea che non ci sia un paese vero e proprio ma solo gruppi di case sparse, e ce ne devono essere tante a giudicare dalle disponibilità di alloggi che trovo consultando Booking, e neanche tanto a buon mercato. Certo anche qui il mare è bello e trasparente, e quindi penso che tanti turisti “non in barca” possano scegliere questa isola come meta per le loro vacanze estive. Noi ci fermeremo solo una notte, come fanno tutti quelli che come noi, viaggiano con “la casa al seguito”.
Corfù
È la sesta volta che arrivo in quest’isola. La prima volta, dodici anni fa, ci arrivai in aereo da Roma. Dovevo imbarcarmi per un viaggio no stop da Corfù alle Baleari - la mia prima “traversata” del Mediterraneo - su una barca di ben ventuno metri, la più grande barca sulla quale ho mai navigato. Ci rimasi solo una notte, in un hotel a due passi da Gouvia, dove c’è il marina più grande di tutta l’isola. Il giorno dopo eravamo già in mare, ansiosi di percorrere le quasi mille miglia che ci separavano da Las Palmas. Due anni fa invece, i propositi di girare l’isola su uno scooter a noleggio, furono drasticamente cancellati da un furioso attacco di ernia che mi rendeva difficile anche solo entrare ed uscire dalla barca.
La Fortezza Vecchia, costruita sul promontorio più a est della citta di Kerkyra, ospita alla sua base i pontili di uno dei due circoli nautici cittadini, il Mandraki. È quasi esclusivamente riservato alle barche a vela, viste le dimensioni ridotte dello specchio d’acqua attorno a cui si sviluppano le due banchine. I grandi yacht si fermano tutti nell’altro circolo, privo di servizi ma posto davanti alla grande baia, che permette di calare le ancore per decine di metri prima di fermarsi con la poppa in banchina. Noi abbiamo trovato posto al Mandraki, ma solo per una notte! Domani arrivano tredici barche in flottiglia e hanno prenotato il posto per due giorni. Maledetti charter, non c’è proprio modo di sfuggirgli. Facciamo ugualmente la nostra passeggiata per le stradine del centro storico, assediato dal solito corteo di turisti.
Per sfuggire alla massa di carni bianche e alle pelli rosso-gambero dei tantissimi inglesi, tedeschi e nord europei in genere, vittime sacrificali del feroce sole greco, abbandoniamo le vie dei negozi e girovaghiamo fra la strette strade irregolari di una Kerkyra “normale”. È tutto silenzioso, qualche passante con le borse della spesa, qualche gatto che dorme steso all’ombra.
Cala la sera e le luci della Fortezza si accendono, illuminano le barche ormeggiate in quello che resta uno dei più bei marina nei quali siamo stati.
Baia di Corfù
Lasciato il Mandraki non abbiamo molta voglia di metterci di nuovo in viaggio, e così caliamo l’ancora anche noi nella grande baia a sud della Fortezza e mettiamo in acqua il nostro amato dinghi ovvero, Ev - che sarebbe l’abbreviazione di Eurovinil, il nome del produttore - ma che noi pronunciamo all’inglese Iv! Con il vecchissimo motore fuoribordo Mariner a due tempi lo attrezziamo per andare a terra. Abbiamo messo gli smartphone, i documenti e le altre cose di valore dentro due piccoli acqua-stop, e ci prepariamo a lasciare la barca all’ancora. Il motore però non parte subito; tiro forsennatamente la cordicella di messa in moto ma non c’è alcun segno di vita in risposta alle mie azioni. La corrente ci sta portando lontano, perché malauguratamente abbiamo mollato la cima che ci teneva legati a Eleftheria, confidando in una immediata messa in moto. Lella comincia a spazientirsi e a preoccuparsi, e mi chiede ripetutamente di mettermi ai remi e di tornare alla barca, temendo di esser portata al largo, chissà dove, forse in terra albanese. Dopo un altro po’ di tentativi desisto e comincio a vogare. Arriviamo alla nostra barca, ci leghiamo per bene, Lella scende da Iv, per evitare che nella foga del “tiro delle cordicella” possa rimediare una involontaria ma temibile gomitata in piena faccia. Io non mi arrendo, e continuo a tirare, tirare, tirare... fino a quando non mi accorgo che c’è la levetta della benzina chiusa! La apro, attendo cinque secondi, tiro la cordicella e il motore si avvia al primo colpo. Non ho parole.
Il lungomare a sud della città scorre per oltre un chilometro e termina sul fanale bianco accanto ad un vecchio mulino a vento, ormai in disuso. Gli scogli frangiflutti sono qui utilizzati dai bagnati per stendercisi sopra con i propri asciugamani, e il piccolo bagno pubblico è anche fornito di una doccia di acqua dolce per togliersi il sale di dosso. Mi viene quasi voglia di fare il bagno, ma poi penso che abbiamo una barca e possiamo fare il bagno più comodamente dalla nostra “casa galleggiate”.
Paxos
I lampi sono cominciati ad arrivare da est, poi sono proseguiti da nord, e infine si sono sentiti i tuoni. A mezzanotte il cielo ha iniziato a sciogliersi sulla terra, e i goccioloni, pesanti e rumorosi, sono piombati sulla coperta di Eleftheria. Ho chiuso tutti gli oblò per tenere l’acqua piovana fuori da letti e divani, ma il caldo e l’umidità sono diventati insopportabili. La pioggia a tratti si ferma, io corro a riaprire tutto, e cinque minuti dopo ricomincia. Un vai e vieni continuo fino alle tre di notte, poi il cielo ha smesso di brontolare ed ho potuto prender sonno.
Solo a giorno fatto ci siamo rimessi in navigazione, dirigendoci verso Paxos. Trenta miglia più a sud, cinque o sei ore, o anche meno, dipende dal vento. Vento che arriva dopo aver doppiato la punta più meridionale dell’isola, e che ci colpisce proprio sulla parte di dritta della barca, facendoci correre a 6,5 nodi. La baia di Lakka, la grande insenatura presente sulla costa nord dell’isola, è già piena di barche, tutte placidamente all’ancora nelle sue acque turchesi. Giganteschi catamarani, grandi e piccole barche a vela, vecchie e nuove, enormi yacht a motore e romantici caicchi a due alberi, tutti trovano posto nella pancia di Lakka. Anche noi troviamo il nostro angolino, su un fondo di sabbia di appena quattro metri e con pochissima catena calata, per impedire alla barca di volteggiare troppo e finire così addosso alle altre barche vicine. Sistemata la barca ci buttiamo subito in mare per fare un bel bagno rilassante. A dire il vero io mi rilasso ben poco, perché vedendo la carena della barca tutta piena di alghe non posso fare a meno di mettermi a toglierle via. Sarà così in ogni baia dove arriveremo, perché quest’anno non ho fatto carena, e non posso fare altro che pulire, altrimenti le alghe creano un freno mostruoso, facendo calare drasticamente la velocità della barca e facendo aumentare paurosamente i consumi di gasolio.
Nel pomeriggio organizzaimo la nostra discesa in paese, con Iv. Dobbiamo fare qualche acquisto di verdura e dobbiamo sbarazzarci del pattume. Abbiamo tutto separato, la carta, il vetro, la plastica, il metallo, l’umido e l’indifferenziato. I “garbage bins” sono qualche centinaio di metri fuori dal centro abitato e quando ci arriviamo constatiamo che esistono solo due tipi di rifiuti: il mix “vetrocartaalluminioplastica” da un lato e dall’altro tutto il resto, umido compreso. Questo è scritto nei bidoni, ma il loro contenuto è assolutamente indifferenziato, con buona pace di tutte le buone pratiche che ci ostiniamo a perseguire in barca. C’è tanta strada da fare, forse infinita...
La sera ceniamo in barca, ascoltando per radio la semifinale Olanda-Inghilterra, mentre da terra, nei bar sul lungomare, si sentono le urla di incitamento dei tifosi inglesi, presenti in gran numero da queste parti.
Paxos, Baia di Lakka
Il via vai di dinghi che portano a terra gli equipaggi delle barche è l’unico moto ondoso presente nella baia. Ieri sera poi era ancora più fitto, a causa della partita degli europei, ma subito dopo la sua fine la calma è tornata sovrana. Questa mattina qualche è andata via, noi abbiamo deciso di restare e fare una bella passeggiata fino al faro, e forse anche oltre. Imbocchiamo la strada segnalata dei cartelli turistici ma nel giro di qualche tornante non troviamo più indicazioni, e al primo bivio serio prendiamo la direzione sbagliata dirigendoci da tutt’altra parte. La strada, un po’ asfaltata e un po’ no, si inerpica fra belle case rimesse a nuovo e vecchi uliveti ancora attivi. Poi si trasforma in sentiero, e iniziano anche dei cartelli con indicazioni di punti panoramici, di mulini a vento e altre località, magari famose, ma delle quali ignoriamo la storia e l’esistenza.
Cominciamo ad accusare il caldo sole di luglio, e la nostra dotazione di cibi e bevande consiste solo in una bottiglia di acqua frizzante da un litro e mezzo; e questo sentiero sale sempre di più, sempre di più e non sappiamo ancora dove porta. Tornante dopo tornante arriviamo in cima alla collina e improvvisamente ci affacciamo sull’orlo di una vertiginosa parete che precipita strapiombante per almeno 200 metri sul mare azzurro della costa occidentale di Paxos. A Lella tremano le gambe a vedere il mare così lontano laggiù in fondo, e anche io devo dire che ho un certa stretta allo stomaco di fronte a questo inatteso panorama. Il sentiero continua a costeggiare lo strapiombo, poi devia verso l’interno e comincia a scender lentamente verso un piccolo centro abitato.
Torna la strada battuta, poi l’asfalto, ritornano le case, e infine le auto e le moto. Stiamo rientrando in paese, anzi siamo arrivati in paese, e precisamente a Magazia, piccolo centro abitato nel quale eravamo stati nel 2017 insieme a Mario, Cesare e Rossana, nella nostra prima crociera nelle isole ioniche. È molto cambiato, con molte nuove case, bar, ristoranti, un piccolo supermarket, una clinica veterinaria pubblica, un presidio dei vigili del fuoco... io ho un ricordo ben diverso di questo luogo, ma si sa, la mente è fallace, quindi non so, magari era così anche sei anni fa, vai a sapere.
Lungo la strada del ritorno raccogliamo del finocchietto selvatico, ottimo per fare un altro esperimento culinario, ovvero una finta pasta con le sarda, usando lo sgombro in scatola, la pasta d’acciughe, l’aglio e il finocchietto. Non è la stessa cosa, ma è più che gradevole.
Antipaxos
Come si fa a non fermarsi almeno un giorno a Vatoumi, la baia dall’acqua azzurra che più azzurra non si può? Non volevamo andarci oggi, ma dopo aver girato tutte le baie possibili della costa ovest di Paxos, e dopo averle scartate tutte per vari motivi, ci siamo decisi a percorrere le tre miglia scarse che ci separano da Emerald bay e ci siamo uniti alla marea di barche che la affollano ogni giorno. Oggi è venerdì, il clou sarà domani e domenica, ma anche oggi la presenza di barche si fa sentire. La cosa peggiore è l’arrivo dei barconi pieni di turisti da Paxos o da Parga; centinaia di bagnanti che si tuffano dalle impavesate, mentre i battelli suonano la sirena e dagli altoparlanti posti a prua e a poppa, una voce forse registrata, impartisce gli ordini di comportamento in più lingue, compreso l’italiano.
Tutto ciò dalle dieci di mattina fino alle cinque del pomeriggio. Al di fuori da questo range torna la pace: le acque si calmano, finisce il moto ondoso, finisce il caos, le urla, la musica. Tutto torna come natura crea, e la baia ritrova la calma strappata via dal furore generato dalle promesse del dio denaro, motore nefasto di un’economia ottusa e malsana.
Siamo rimasti in cinque, due catamarani, e tre barche a vela. Più in là, un po’ al largo, altre tre barche, due grandi yacht a motore e un gigantesco bialbero a vela dal nome altisonante nonché pretenzioso: Atmosphere.
Sabato, 13 luglio, Meganisi
Contrariamente a quanto succede di solito il vento non è calato con il tramonto, ma ha continuato a soffiare fino a notte fonda, con leggere ma continue raffiche. Non una buona dormita dunque, ma un dolce risveglio, con Eleftheria placidamente dondolante su un mare immobile e cristallino. Oggi ci aspetta un altro piccolo trasferimento. Dobbiamo percorrere le 40 miglia che ci separano dall’isola di Meganisi, nostra prossima tappa, al di là del canale di Lefkas.
Nel silenzio del mattino ci muoviamo lentamente verso il mare aperto. Nessuna barca si è ancora mossa dal proprio rifugio notturno dentro una delle numerosissime cale e calette di queste isole. L’orizzonte è velato dalla foschia, e il mare si confonde con il cielo. Il profilo roccioso di Lefkas non si vede ancora ma sappiamo che è lì, a cinque ore da noi. L’arrivo del vento pulisce l’aria, increspa il mare e dà una spinta a Eleftheria, che ora viaggia con le vele aperte a 6 nodi. Entriamo nel canale che porta al ponte mobile poco dopo le due del pomeriggio. Per nostra fortuna c’è ancora uno spazio libero in banchina e ci accostiamo lentamente. “Can you help me?” chiede Lella ad un signore seduto nel pozzetto del suo bel caicco ormeggiato proprio lì accanto. “Of course” è la risposta, e gli lanciamo le nostre cime per legarci agli anelli cementati sul molo.
Pausa, birra, tarallucci Fior Fiore e.... due ore di attesa! E sì, perché il ponte riapre solo alle quattro del pomeriggio, saltando sia l’apertura delle due che quella delle tre. Funziona così, me ne ero dimenticato.
Qualche metro più in là, davanti alla nostra prua, c’è ormeggiata una barca italiana, un Comet 111, che fra le varie bandiere issate a riva, sfoggia una magnifica bandiera della PACE. Che invidia, ne vorremmo una anche noi, chissà dove l’ha comprata. Mi fermo a scambiare due chiacchiere e mi racconta le sue disavventure. È da solo in barca, fermo da una decina di giorni a questo molo per un grosso guaio che gli è capitato: ha rotto lo strallo! Per chi non lo sapesse lo strallo è un cavo d’acciaio che tiene ben saldo l’albero alla prua della barca, e navigando senza più lo strallo c’è il rischio che l’albero non stia in piedi e crolli sulla coperta, facendo danni che non oso nemmeno pensare. A lui è andata bene, l’albero ha tenuto, aiutato da qualche drizza cazzata al posto dello strallo, e si è fermato qui, aiutato anche lui da Tom, quello del caicco.
A Lefkas ha trovato un buon rigger che gli cambiato tutto, compreso l’avvolgifiocco che è andato distrutto. Sta aspettando solo che il velaio modifichi il genoa per adattarlo ai nuovi profili montati e poi può ripartire. Ma non ha l’aria di chi vuol rimettersi in mare. Era arrivato qui insieme ad altri due amici, che nottetempo e senza nemmeno un biglietto lasciato sul tavolo, sono scesi dalla barca e sono andati via. Io sarei rimasto sconvolto, e forse lui lo è un po’, anche se dissimula il suo malessere dicendo che è stato meglio così, “perché dieci giorni qui, in tre, non sarebbero stati facili da gestire”.
Provo a consolarlo raccontandogli anche le mie “sfighe crocieristiche” ma so che non funziona, il mal comune mezzo gaudio in questi casi è solo una stupida frase fatta.
Gli auguro buon vento e spero di ritrovarlo verso sud, verso Itaca.
Alle quattro in punto il ponte si muove, gira su sé stesso e apre la via a decine di barche che rombanti lo attraversano nei due sensi di marcia. Percorriamo il lungo canale, scavato e segnalato da grandi boe verdi e rosse che separa Lefkas dalla terra ferma, ed entriamo in quel piccolo grande mare interno formato dalla corona di isole poste a semicerchio davanti al Golfo di Corinto. Ci fermiamo nella baia di Atherinòs, un’insenatura ben protetta nella costa nord orientale di Meganisi. Solita folla di barche, qualche decina, ma un posticino si trova sempre per calare la propria ancora. Per nostra fortuna questo posto è molto discreto e silenzioso, nessuno schiamazzo, niente bum-bum music proveniente dalle barche e niente flottiglie charter.
Lella oggi è fuori gara per colpa di un fortissimo dolore al ginocchio che l’ha tormentata tutto il giorno. Arnica e Voltaren non sono bastati e fa fatica anche a poggiare la gamba a terra. Speriamo che una notte di sonno e di riposo siano sufficienti a farle passare il male, ma memore dei miei malanni di tre estati fa, che sono durati diverse settimane, sono molto in apprensione.
Commenti
Posta un commento