Epilogo
Mercoledì 21 settembre.
Sono a Bologna da due giorni. Eleftheria riposa sul pontile del circolo nautico a Marina di Ravenna; ferma e ormeggiata alle briccole, come si usa in nord adriatico. È stata la mia casa per tre mesi e mezzo, e quando sono partito l’ho riempita di tutto quello che poteva servirmi in viaggio. Tanti vestiti, tante cosa da mangiare e bere, tanti libri, tanti dolciumi e tanto vino, anche se quest’ultimo, come temevo, è finito prima del previsto. La svuoteremo piano piano, nei prossimi giorni, nelle prossime settimane. Avrà anche bisogno di qualche riparazione, di nuove cime laddove si son logorate, di olio e grasso per tutte le parti meccaniche in movimento, di spazzole e detergenti per togliere dagli acciai e dalla coperta sporco e macchie di ruggine. Dovrà anche andare in cantiere, per una bella pulita alla carena e per rimettere la vernice antivegetativa sul fondo dello scafo, per controllarlo meglio e per fare qualche eventuale riparazione al gelcoat.
Centosei giorni è durato questo viaggio in barca a vela, il più lungo viaggio che abbia mai fatto in vita mia. Lo desideravo dal momento stesso in cui abbiamo preso la barca, anzi ci pensavo anche prima, fin da quando ho iniziato a leggere i primi libri dei navigatori solitari, quei personaggi che hanno fatto la storia della navigazione del ventesimo secolo, da Slocum a Moitessier, da Vito Dumas a Tabarly, fino ai più recenti marinai, coppie o solitari, che hanno deciso di fare il giro del mondo, o anche solo il giro del Mediterraneo. Io non ho fatto né l’uno né l’altro, ma semplicemente un lungo viaggio dall’Italia alla Grecia e ritorno; e per giunta non ho nemmeno raggiunto tutte le isole e le coste che pensavo di poter toccare e visitare. Non sono arrivato nella penisola calcidica, sotto il monte Athos, respinto da un Meltemi che era già nel pieno della sua forza e quindi molto difficile da risalire; non sono andato verso est, sotto le coste turche, per poi ridiscendere da Lesbos fino alle isole del Dodecanneso; e non sono andato nelle famose e blasonate Cicladi centrali, quelle di Santorini e Mikonos, per intenderci. Troppo breve il tempo e troppo tardi il momento in cui sono partito dall’Italia.
Ho però viaggiato tantissimo lo stesso, facendo oltre 2.500 miglia, la stessa distanza che c’è fra le Canarie e la Martinica, come una traversata atlantica ma “a tappe”. Ho disceso l’Adriatico fino a Santa Maria di Leuca, la punta più a sud della Puglia; ho raggiunto Corfù attraversando lo Ionio in una giornata di nebbia estiva; sono stato a Paxi, già piena di turisti a metà giugno, e mi sono fermato a Lefkas per aspettare Marinella che arrivava da Bologna. Insieme abbiamo circumnavigato il Peloponneso, magnifico territorio e magnifico mare, forse fra i più belli di tutta la Grecia. Doppiato il mitico Capo Maleas in una giornata di calma piatta e risaliti fino a Nauplio, nell’Argolide, per fermarci a vedere le grandiose rovine di Micene ed il meraviglioso teatro di Epidauro. Poi di nuovo da solo verso Atene, per imbarcare Max e sfidare il Meltemi navigando tra la terra ferma e l’isola di Eubea. Abbiamo dovuto aspettare quattro giorni che il vento calasse un po’ prima di passare oltre Capo Sounion e dirigere verso Chalkida, dove si è aggiunta all’equipaggio Siria.
In tre abbiamo raggiunto le isole Sporadi settentrionali, poi di nuovo in due navigando fra Skopelos e Alonissos; e poi, ultime a salire su Eleftheria, Daniela e Alice, per una breve ma bella crociera fra le isole deserte del parco marino della foca monaca, da Peristeri a Kira Panagia ad Alonissos.
Da qui è iniziato il lungo viaggio di ritorno, con una sosta a Skiros, la più grande e isolata delle Sporadi, bella e poco turistica, il regno delle aragoste, come si legge nelle guide e come si vede nei ristoranti lungo la banchina del porticciolo di Linaria.
Da Atene, di nuovo insieme a Lella, abbiamo raggiunto e attraversato il canale di Corinto, maestoso e profumato di macchia mediterranea; poi Galaxidi con l’oracolo di Delfi fra le montagne di calcare dell'entroterra, e Lepanto con il suo porto fortezza, prima di tornare nello Ionio, alla nostra amata Itaca.
Corfù ci ha accolto nel suo ormeggio più affascinante, quello sotto la vecchia fortezza veneziana, e a Brindisi il maestrale e i miei acciacchi alla schiena ci hanno tenuti fermi per quasi una settimana.
Poi la lunga risalita del mare Adriatico fino a Ravenna, con anche la bora a più di 60 nodi, lasciata sfogare mentre eravamo saggiamente riparati in porto.
Non sono mancate le disavventure, dalla cinghia dell’alternatore rotta e della difficoltà di trovarne una di ricambio, alla batteria del motore, morta nel bel mezzo di un ormeggio in porto a Paxi; e poi la mia povera schiena, vittima dell’ernia che ventisette anni fa aveva già funestato la mia prima spedizione speleologica in Honduras, costringendomi a continue iniezioni di antodolorifici.
Ma al di là di questi piccoli o grandi inconvenienti, viaggiare in barca per così tanto tempo ininterrottamente è stato magnifico; ho imparato tantissimo, ho conosciuto molte persone, nei porti e negli ormeggi; ho condiviso con loro esperienze e conoscenze; ho capito come gestire al meglio la barca da solo, ho imparato a navigare di notte in solitario dormendo solo venti minuti alla volta, ho visto che in porto da solo non sei mai e qualcuno che ti prende le cime quando arrivi c’è sempre; ho conosciuto la solidarietà fra chi naviga e la facilità con la quale si fa amicizia; ho iniziato ad odiare i charter e le flottiglie di charter, invadenti e pericolosi, con la loro imperizia nelle manovre e le loro chiassose serate fuori e dentro le barche; ho visto yacht giganteschi sbagliare ormeggio e barche piccolissime a pesca in mezzo alle onde; ho visto i “cafonauti” greci sfrecciare a tutta velocità con i loro motoscafi passandoti vicino e sollevando un’onda terribile, e che nulla hanno da invidiare ai cafonauti italici; ed ho visto una piccola piccola parte di Grecia, troppo piccola per non pensare di tornarci al più presto, con o senza barca.
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