Le lunghe dita del Peloponneso
Lunedì 4 luglio - Rocca di Koroni.
Sono le 4 del mattino, e visto che si dorme una notte sì e una no, e che questa è la notte no, conviene smettere di far finta di dormire e partire. È buio, dirigiamo verso sud con le luci di via in testa all’albero accese per segnalare la nostra presenza, nel caso in cui dovessimo incrociare altri naviganti. Quarantacinque miglia ci separano da Porto Kayo, quello che in tutti i portolani è definito il miglior ridosso di tutto il Peloponneso. Per raggiungerlo dobbiamo doppiare il capo della penisola del Mani, Capo Matapan. In mare c’è l’onda lunga creata dalla giornata di vento di ieri, e dobbiamo scavalcarla spingendo il motore anche oltre i 2000 giri, raggiungendo appena i 5 nodi. Per qualche ora si va così, poi il mare si calma e quando esce il sole arriva anche un po’ di caldo. Piacevole alle 6 di mattina, fastidioso già alle 8. Comincia il solito balletto di “apri il genoa, spegni il motore, chiudi il genoa, riaccendi il motore”, nella vana speranza di andare a vela. Così fino ad arrivare al Capo, ma non appeno gli giriamo attorno ci investe un’aria bella tesa dritta in faccia.
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Capo Matapan |
È normale, succede in ogni capo, e passa in fretta. Porto Kayo è solo 4 miglia più a nord ed è una bellissima baia chiusa da tutti i lati, un vero porto naturale, super protetto. Più ci avviciniamo più il vento aumenta. Saranno 15 o 20 nodi; viene proprio dalla baia di Porto Kayo. Quando stiamo per entrare le raffiche sono ancora più forti; ci guardiamo negli occhi aspettando di vedere chi per primo pronuncerà la frase “ma non doveva essere il luogo più protetto?!” Entriamo e in fondo alla baia vedo altre barche alla fonda; punto l’occhio sulle le bandiere issate a poppa o sulle sartie per vedere se sbattono o se sono ferme; purtroppo sbattono... butta male, c’è vento anche dentro. Dovrà calare, mi dico, sennò tutto ciò non ha senso. Ci portiamo fin sotto la parete più alta di tutta la baia e lì di vento ce n’è un po’ meno.
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Porto Kayo dalla spiaggia |
Rumori di catene che scorrono sui verricelli, comandi urlati fra chi sta al timone e chi a prua, motori che accelerano e rallentano, dialoghi non sempre cortesi fra chi sta a bordo di una barca già ancorata e chi arriva cercando un posto e teme di urtare altre barche oppure di mettere un’àncora sopra l’altra, magari facendo perdere presa sul fondo a chi è già lì. Il momento dell’ormeggio in baia è sempre con il coltello fra i denti, e la solidarietà fra gente di mare, di solito molto grande, in questi casi è praticamente nulla. Una coppia di olandesi ha cercato più volte di fermarsi accanto a noi, poi ha desistito spostandosi in mezzo alla baia; un catamarano si è infilato fra due barche ignorando le proteste dei due skipper vicini; una coppia di italiani gira per mezz’ora fra le barche, sotto lo sguardo più che vigile degli altri diportisti, pronti a sbranarli se fanno un errore; un tedesco, baffone e panciuto, difende la sua linea di ancoraggio cacciando via chiunque gli si avvicini, fra l’altro avendo dato ben 60 metri di catena su un fondo di appena 6 metri, e quindi occupando un’area spropositata di mare. Vita mea mors tua, verrebbe da dire.
Diamo àncora, venti metri, poi altri dieci. Il vento cala, ci sentiamo più tranquilli. Poi cala del tutto, mi sa che è la solita sfuriata delle due del pomeriggio, come ormai l’abbiamo chiamato questo vento traditore. Una decina di barche sono quelle che vediamo attorno a noi e che penso passeranno lì la notte. Facciamo un tuffo per controllare la presa dell’àncora, per guardare scogli, pesci e quanto di bello può offrire questa baia. L’acqua trasparente mi permette di vedere che l’àncora è ben piantata senza nemmeno scendere sott’acqua. Che meraviglia il mare del Peloponneso!
Sul lato sud della baia c’è una piccola spiaggia, alle spalle alcune costruzioni; dovrebbero essere delle taverne, come abbiamo letto nel portolano, ma non abbiamo la forza di mettere il tender in acqua e sbarcare, non subito almeno. Ancora bagnato di acqua di mare, mi stendo in pozzetto a riposare un po’ all’ombra del tendalino, stanco per il sonno mancato di stanotte.
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La punta Sud-Est di Porto Kayo |
È quasi sera quando raggiungiamo la spiaggia a bordo di Iv e lo fermiamo legandolo ad un piccolo e malfermo pontile di legno, indispensabile per sbarcare senza bagnarsi i piedi. Due taverne, un bar, un mini hotel con parcheggio, una piccolissima area sosta per camper, una strada molto ripida che sale dalla spiaggia di ciottoli fino alle poche case che si intravedono fra gli alberi a mezza costa lungo le pareti della baia. Il centro abitato di Porto Kayo è tutto qui. Cerchiamo un alimentari per poter comprare un po’ di pane, ma non ce n’è traccia. Vedo un camper di italiani e chiedo a loro se sanno dov’è. “No qui non ci sono negozi, c’è solo un camioncino che arriva la mattina alle 11 e si compra da lui quel che serve” mi rispondono. Mi sembra di essere tornato bambino, quando alle case popolari dove abitavo, alla periferia nord della mia città, ogni mattina passava un camioncino che ti portava di tutto, dalla verdura ai detersivi, al pane. È per una strana coincidenza, che a volte capitano nei viaggi, questi signori del camper sono proprio di Siracusa! Molto carinamente ci danno un pezzo del loro pane “è pulito, solo appena tagliato... se lo volete... tanto noi domani andiamo via...”.
Ringraziamo e imbocchiamo un sentierino che porta in alto verso quella che sembra una chiesetta sulla punta sud est della baia. È piccola, senza campanile ma con una costruzione ad arco che sporge da uno dei muri esterni e sul cui architrave è appesa una campana. Entriamo nella chiesa e altra coincidenza. Fra i quadri e le stampe appese ai muri c’è anche quello di Santa Lucia, la santa protettrice di Siracusa!
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Interno della chiesa sopra la collina di Porto Kayo |
Poco più in basso, lungo la strada, un'altra piccola costruzione, una casetta con dentro delle cassette disposte sopra delle panche e con una foto sopra ogni cassetta. È un piccolo cimitero dove riposano le ceneri di alcuni abitanti del luogo, chissà perché in questo posto. Le scritte in greco purtroppo non riusciamo a tradurle.
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Santa Lucia!! |
Il sole è sceso dietro il profilo dei monti che sovrastano Porto Kayo. Sul mare immobile si riflettono le luci già accese delle barche alla fonda e quelle dei ristoranti sulla spiaggia. Solo un grande yacht arrivato da poco disturba con i suoi motori il silenzio di questa meravigliosa baia.
Martedì 5 luglio – Elafonissos
È da otto anni che il nome dell’isola di Elafonissos risuona nelle mie orecchie, da quando andando da Malaga alle Canarie in barca uno dell’equipaggio mi ha detto: Vai in Grecia? Vai a Elafonissos, ci sono stato degli anni, mi conoscono tutti, ti do i nomi di tutti...”
Lasciato Porto Kayo ci avviciniamo alla Laconia, il “terzo dito” del Peloponneso al fondo del quale si trova Elafonissos, e notiamo che in questo tratto di mare ci sono tantissime navi commerciali, sembrano alla fonda, anche se è impossibile visto le profondità del mare che qui supera anche i 1500 metri. Ne contiamo fino a 14 contemporaneamente e sembrano ferme, quasi alla deriva. Chissà, forse aspettano di girare Capo Maleas con meno vento di quello che c’è adesso, e oggi stanno qui in questo braccio di mare ben riparato, prima di entrare in Egeo. Comunque sono strane tante navi tutte qui attorno, mentre per tutta la discesa del Peloponneso ne abbiamo incontrate pochissime. Ci sarà un qualche motivo che ignoro.
Il vento gentile in poppa ci spinge velocemente verso l’isola e proviamo anche ad andare in porto, nella punta nord, entrando con attenzione, visto che i fondali in quella zona sono di appena due metri, ovvero 30 centimetri in meno di quanto non sia profonda la nostra chiglia. Entrando nel canale che divide l’isola dalla terra ferma troviamo però troppa onda e non è il caso di rischiare il fondo della barca solo per fare un po’ di spesa. Siamo arrivati un po’ tardi, e il vento adesso è sui 20 nodi, troppi. Giriamo la prua e torniamo indietro, facendo il periplo dell’isola in senso antiorario e dirigendoci verso quelle che tutti i portolani chiamano “le spiagge caraibiche della Grecia”. Daremo àncora lì e aspetteremo che il meteo ci permetta di entrare in Egeo, facendo un po’ di bagni.
La baia di Frangos, la più ridossata dal vento - che da gentile che era è ora diventato più che molesto - è già piena di barche quando ci arriviamo anche noi. Superiamo il primo strato di prue, parabordi e catene sospese e troviamo un posticino buono. Diamo fondo a tutta la catena che abbiamo, 50 metri, e ci fermiamo in attesa degli eventi meteorologici. Acqua bellissima, ma la spiaggia caraibica con le dune di sabbia descritta nel portolano si vede appena, tutta ricoperta da una fila di ombrelloni di paglia e altrettante sedie a sdraio; con i bidoni per il pattume allineati in seconda fila, indispensabili per carità, ma purtroppo poco estetici; con una specie di bar, o taverna, non si vede bene da lontano, protetto da un recinto di legno, e dotato di tetto di paglia come gli ombrelloni, anche lui un po’ invadente. E per di più la tripla fila di barche, fra le quali anche la nostra, ferme davanti alla spiaggia, tolgono qualsiasi fascino al luogo.
Doveva essere molto bello, è lo è senz’altro ancora adesso, ma fuori stagione. Ora è solo un luogo molto affollato e nulla più. Delusione.
Per nostra grande fortuna le previsioni del vento – ormai le chiamo così visto che è l’unica fra le mille funzioni disponibili che controllo – sono cambiate e domattina si potrebbe anche tentare il colpo e passare di là.
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Capo Maleas |
Mercoledì 6 luglio – Monemvasia
Oggi è il giorno di Capo Maleas. È il mitico capo dell’Odissea, dove Ulisse venne colpito dalla tempesta sollevata da Poseidone e scaraventato molte miglia più a est, a Creta. Sempre nel portolano c’è scritto che se state andando a Capo Maleas, ricordatevi che il vento sarà il triplo di quello che avete in questo momento, e che è bene ridurre tutta la velatura per evitare brutte sorprese. Noi ci stiamo avvicinando quasi senza vento, e anche altre barche a vela stanno facendo la nostra stessa rotta, segno che le condizioni sono davvero miti. Non siamo i soli ad aver lasciato Elafonissos. Anche un altro Grand Soleil ha salpato l’ancora, vecchio come il nostro, e avanza a motore. Apriamo il genoa per sfruttare una leggera brezza da ovest, poi dopo qualche miglio lo richiudiamo e proseguiamo solo a motore.
Il Capo è davvero maestoso. Le sue alte pareti salgono dritte da un mare profondissimo, terminando dopo circa 500 metri di dislivello. Lungo la falesia ovest, a circa 50 metri dal livello del mare, due monasteri, poco distanti l’uno dall’altro, sembrano quasi scolpiti nella roccia. Si fa fatica ad individuare la strada o il sentiero usati per raggiungerli o per lasciarli. Dall’altro lato del promontorio non vi sono costruzioni, solo il grande faro, posto molto in basso ad appena una decina di metri sopra il mare. Poi, poco più in là, la prima cittadina e al nostro orizzonte il Golfo di Monemvasia. Siamo entrati in Egeo, abbiamo superato il punto più a sud di tutto il viaggio.
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La strada che porta alla Rocca Di Monemvasia |
La penisola di Monemvasia è una piccola e ripida rocca a forma di oliva. Il borgo costruito lungo le sue pendici meridionali è oggi quasi disabitato, ma molte case sono state ristrutturate, e in alcune ci stanno lavorando anche adesso, e sono state trasformate in alberghi, bar, ristoranti, negozi. Detto così sembrerebbe un brutto posto, ma non lo è per nulla. Le chiese, le piazze, le strette vie, i bastioni e le mura, le porte di accesso alla città, le scalinate che conducono in cima alla rocca, la fortezza costruita sulla sua cresta, gli ulivi, gli eucalipti, la scogliera bassa e l’acqua trasparente ne fanno un posto incantevole.
Certo i turisti ci sono, come ci siamo anche noi, ma basta uscire dalla cosiddetta via dello shopping e ci si può perdere girando quasi da soli fra queste insolite case.
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Il borgo di Monemvasia |
Il porticciolo dove fermarsi per la notte si trova sulla terra ferma, ed è veramente piccolo. Una decina al massimo di barche, con àncora e cime a terra. Non ci sono servizi per barche, ma la presenza di un rubinetto d’acqua potabile è una grande ricchezza, per chi come noi sta da giorni in mezzo al mare. Poter riempire il serbatoio, potersi fare una doccia con l’acqua che esce a pressione dal tubo di gomma, e soprattutto poter togliere dalla barca quella patina di sale che inesorabilmente ha ricoperto tutto e che quando cala la sera trattiene l’umidità impregnando ogni cosa, ci dà un grande senso di benessere.
Dopo di noi arrivano anche altre barche, proprio quelle che erano a Elafonissos. Il Grand Soleil 39 si ormeggia accanto a noi; sono una coppia piuttosto avanti negli anni, lei olandese, lui austriaco. Hanno vissuto venti anni in Liguria e parlano bene l’italiano. Adesso vivono in Svizzera. La barca l’hanno presa nel 1988 proprio in Italia e hanno navigato tanto, dal Mediterraneo al mar Baltico. Hanno anche fatto il giro del mondo, non sul Grand Soleil, ma su un catamarano.
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Il molo del porticciolo di Monemvasia |
Sono stati via dieci anni, chissà che lavoro facevano. Lella pensa che siano dei ricchi rentiers e non abbiano mai lavorato in vita loro. Tutto può essere, ma se fossero davvero ricchi forse non avrebbero una barca del 1988, e per di più con il tender bucato da riparare.
Dopo gli “svizzeri” arriva anche una barca più piccola, con un signore che parla perfettamente italiano. Lo ha imparato a Bologna, dove ha studiato tanti anni fa, e dove ha vissuto per qualche tempo. Ora vive a Pylos, nel golfo di Navarino. Ci regala un sacchettino con dentro delle uova di tonno appena pescate, “per fare la pasta o per mangiarle fritte, come meglio crediamo” ci dice. Saranno almeno tre o quattro etti, e ci si farebbe una pasta per dieci persone! Vedremo come usarle, per il momento devo capire come fare gasolio e come raggiungere il rubinetto dell’acqua, distante una quarantina di metri da noi. Sono troppi per il nostro tubo, ma unendo anche quello degli “svizzeri” riusciamo a colmare la distanza, e così tutto il molo può utilizzare, a turno, l’acqua: una vera e propria cooperativa!
Nel frattempo vedo avvicinarsi al molo una piccola autobotte, quella che porta alle barche il gasolio, e la fermo subito. Raggiunge il nostro posto e iniziamo il rifornimento. Contrariamente all’autobotte di Itaca qui il gasolio ha meno aria dentro ed è più facile riempire le taniche e il serbatoio senza farlo cadere in mare. Si chiama MERAVIGLIA il nostro benzinaio e ci racconta anche che è di origini siciliane. Quando Lella gli dice che anch’io sono siciliano comincia a chiamarmi “paesano” e passa subito dall’inglese allo spagnolo, facendo uno collegamento fra Sicilia e Spagna a prima vista illogico ma che a ben pensarci ha anche una sua motivazione storica. Sul molo ormai si parlano sette lingue diverse, a volte anche in una stessa frase purtroppo, senza però compromettere più di tanto la comunicazione fra di noi, anzi: greco, italiano, francese, spagnolo, tedesco, olandese e... lettone! Sì perché c’è anche una barca di Tallin, un X-yacht da regata che non si capisce cosa ci faccia in mezzo a queste “vecchie signore” come sono le nostre barche da crociera, tutte attrezzate con tendalini, pannelli solari, rollbar e piante di basilico in pozzetto, mentre loro sono nudi e crudi come usciti dal cantiere.
Sistemate le esigenze della barca, e le nostre, è giunto il momento di salire alla rocca di Monemvasia. Ci andiamo quando il sole comincia a calare e facciamo solo bene. Giro breve, in attesa di tornarci domani con l’idea di fare anche il bagno sotto le mura della città.
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Vicoli di Monemvasia |
Giovedì 7 luglio – Monemvasia
Niente zanzare, niente vento, niente rumori, solo una notte un po’ calda ma che non ci ha impedito di svegliarci tardi e alzarci del letto senza fretta.
La cena di ieri sera alla Taverna è stata deludente, anche se molto economica, e quindi stasera mangeremo in barca. Abbiamo anche la “bottarga fresca” da consumare e non vogliamo che vada a male. Prima di lasciare la barca una bellissima sorpresa ce la fa una magnifica tartaruga che gira indisturbata fra le barche ormeggiate, per curiosità, per abitudine, chi lo sa, per noi è comunque una grande emozione ed è la prima volta che ne vedo una così grande e così vicina.
Tutta la giornata la passiamo in giro sulla parte alte della rocca, tra le mura della fortezza superiore, e quando siamo ormai agli sgoccioli con l’acqua scendiamo giù per le scale che attraversano il castro e raggiungiamo la piccola scogliera sotto le mura sud, attrezzata con alcune piazzole di cemento piastrellate con sassi piatti e che portano fino al mare.
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I gatti di Monemvasia |
C’è anche un tubo dell’acqua con una doccia d’acqua dolce, della quale approfittiamo a man bassa per lavarci, e non solo dal sale. I sassi neri su cui abbiamo steso i nostri teli sono roventi e ci vuole un po’ per riuscire a non scottarsi poggiandoci sopra la schiena; ma si sta bene e il pomeriggio fila via così, tra un bagno e una nuotata, aspettando che cali il sole. Domani lasceremo il nostro porto riparato e andremo ancora più a nord, verso le isole dell’Argolide. Spetses, Hydra, Porto Cheli sulla terraferma, o dove ci dirà il vento che è meglio fermarsi per passare la notte.
Venerdì 8 luglio – Spetses
Lasciare un porto la mattina presto salpando l’àncora fa temere sempre che si sia incastrata da qualche parte o che qualcuno ci abbia messo la sua sopra. Ed è sempre un gran sollievo quando da prua Lella mi dà il via libera tirando su il pollice.
Usciamo dalla piccola diga sud, superiamo la rocca e navighiamo vicino alla costa per ammirare le pareti di calcare che formano tutta questa parte di Peloponneso. Porto Cheli è a 35 miglia, lo raggiungeremo fra 6 o 7 ore. Procediamo a motore, monotonamente, leggendo e prendendo il sole. Quando siamo vicini a Spetses cambiamo però meta, il vento è previsto solo da sud e facciamo sosta in una grande baia a nord est dell’isola, l’Ormos Zogerià. Grande, quasi vuota, si può anche fare il bagno. Tentiamo inutilmente di mettere la cima a terra per stare più fermi, ma la profondità a riva è troppo limitata e per di più la sabbia ricopre solo leggermente la roccia rendendo la presa dell’àncora impossibile. Meglio stare “alla ruota” con tanta catena e tanti metri sotto la chiglia.
Sabato 9 luglio – Tolo
La meta che abbiamo scelto, dopo aver visto il meteo tante e tante volte, è Vivari, una baia riparata da tutti i venti, con un paesino al fondo, un pontile e dei gavitelli. Così lo descrive il portolano ed è a 20 miglia da noi. Il vento stamattina viene da est, saranno 10 o 15 nodi, non di più. Usciamo dalla baia con il genoa aperto ma col motore acceso. Per un po’ andiamo così, poi le cose cambiano.
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Temporale su Spetses |
Il cielo si fa più nero, il vento cessa, poi cambia direzione, poi ritorna... Abbiamo già chiuso le vele e guardiamo con apprensione il nuvolone che dietro di noi scarica già abbondante acqua proprio nella baia dove abbiamo passato la notte. Siamo tranquilli però, fra poco più di un’ora saremo riparati e il temporale sta andando in un'altra direzione. Quando entriamo a Vivari non troviamo la situazione che ci aspettavamo; lo spazio per mettere l’àncora non c’è, troppo profondo e troppo basso sottocosta; i gavitelli sono tutti occupati dalle barche locali. Per forza, mi vien da dire, il moletto non è praticabile se non con un motoscafo che ha la chiglia piatta e non la deriva come noi, insomma, le indicazioni del portolano sono davvero poco corrette, o forse noi non siamo in grado di trovare un punto dove fermarci. In ogni caso da qui si va via.
Usciamo dalla baia e il vento ci costringe a spingere con il motore per contrastarlo. Non ci piace l’idea di andare fin da subito a Nauplio ma non troviamo altre soluzioni; per fortuna, passando accanto all’isolotto di Tolo, vediamo una baia con l’acqua calma e tre barche che stanno lì placidamente alla fonda. Puntiamo dritto verso l’isolotto e ci ripariamo in questa isola a mezza luna. È una bella baia, totalmente deserta, con un altro isolotto di fronte che la protegge parzialmente anche da sud. Siamo in cinque in tutta la baia, e quando arriva la notte rimaniamo solo in tre, tre barche a vela distanti cento metri l’una dall’altra. Very quiet.
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Isola di Tolo nell'Argolide |
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